Non ho mai amato Genova. Ho sempre provato inquietudine, fastidio, nell’attraversarla, nell’entrare dentro le sue gallerie, nel transitare sopra suoi viadotti. Sin da bambino. Ricordo, non so perché mi sia venuto in mente, una gita alle grotte di Toirano durante le elementari. Ricordo che rimasi stupito quando il pullman passò da Genova. “Maestra, perché ci sono tutte questi palazzi sulle colline? Non c’è neanche un pezzetto di collina vuoto. E perché tutti questi ponti passano proprio sopra i tetti delle case?” Non ebbi risposta, o forse solo una risposta generica. E quelle domande di bambino frullano nella mia testa anche oggi, inconsciamente, assieme a quel senso di inadeguatezza che mi prende allo stomaco ogni volta che passo da Genova.
Chissà come si vive in una casa popolare abbarbicata sulle colline. O con un viadotto al posto del cielo, sprofondati in una vallata industriale tagliata in due da un fiume che trasporta tossine e con vista Ikea.
Sicuramente si vive meglio nei palazzi del cinquecento del centro storico, e nei suoi vicoli risanati e riportati a nuova vita. Nessuno dovrebbe vivere come si vive nelle periferie di Genova. Sotto ad un ponte che ti può cadere sulla testa.
Credo che si debba partire da questo. Interrogarsi sul rapporto tra progresso e qualità della vita; tra economia ed ambiente. Umanizzare l’urbanistica, le città. L’ambiente in cui si vive, si lavora, si coltivano le relazioni non deve essere ostile, ma amico. Bello e dolce. Per chi ci abita e per chi viene in visita da fuori.
Nel nome del profitto e del libero mercato, della velocità e della produttività; ma anche nel mito della collettivizzazione forzata e delle magnifiche sorti e progressive della classe operaia, si sono costruite città affogate nel cemento, soffocate dall’inquinamento, con le fabbriche accanto alle case, cresciute in modo scomposto ed abnorme; con volumi informi, sporchi, spigolosi, duri, degradati, da cui si è costretti a distogliere lo sguardo, perché sono l’immagine della bruttezza assoluta. Periferie della materia e dell’anima, destinate a produttori e consumatori, disoccupati e pensionati, instabili e precari.
Mentre coloro che inneggiano al profitto, alla produttività, alla velocità, alla statalizzazione ed alla burocrazia vivono in ville vista mare, in quartieri curati ed immersi nel verde, in cui la lentezza e la morbidezza regolano lo scandire del tempo.
Le chiavi della mobilità sono state consegnate ai costruttori e gestori di autostrade, oltre che a quelli di automobili e di camion. Grandi imprese del capitalismo italico familiare e famelico e Boiardi di Stato parassiti e protetti da correnti di partito, tutti alla stessa greppia. Grandi incassi, manutenzione minima. Giusto quello che serve a vivacchiare, a tirare avanti con ponti e viadotti che ogni giorno si sgretolano un poco sotto il peso di milioni di veicoli. Ogni tanto, questi ponti e viadotti crollano. Fa parte del gioco. Sembra quasi un rischio calcolato. Un costo di impresa. Tanto non paga nessuno. Solo le vittime.
In fondo non è vero che non ho mai amato Genova. La verità è che la conosco poco. Non l’ho mai vista dal mare, come ci consiglia Ivano Fossati. E non ho avuto mai in dono quel tempo necessario per perdermi tra i suoi vicoli e trovarne il significato. Un po’ come la Genova del filo dell’orizzonte di Tabucchi. È solo quel maledetto senso di inquietudine che si prova ad attraversarla quando si va dall’altra parte, e a volte si arriva sino in Francia. Sono quelle gallerie infinite e buie, quelle favelas arroccate sulle colline come fortezze. Forse, si può tentare di attraversarla chiudendo gli occhi, o passando in riva al mare. Forse, anche meglio, si può provare ad immedesimarsi con chi vive sotto i ponti e sulle colline di cemento. Magari solo per pochi istanti, quelli che servono per amare un poco di più questa città meravigliosa e fragile.