Diciamocelo papele papele, e senza la solita puzza sotto il naso da radical chic: Lino Banfi (che Di Maio chiama Maestro) è perfetto per rappresentare l’Italia di oggi nel prestigioso, ma un po’ imbalsamato, consesso dell’Unesco.
Finalmente diventa protagonista diplomatica l’Italia della pernacchia con la mano sotto l’ascella, del sessuomane che spia la doccia della bonazza dal buco della serratura, l’Italia che chiama i gay frocioni (con simpatia chiaramente), quella dei truffaldini empatici che ti fregano con il sorriso, quella della battuta pecoreccia sulla vecchia sdentata, del compagno di scuola più scemotto da prendere a schiaffi nel collo, della scorreggia con l’accendino, dello sfottò da stadio, dello scherzo da camerata al terrone sempliciotto durante il servizio militare, della persecuzione dei secchioni e delle racchie in classe, della presa in giro sul difetto fisico e la razza; e tutto in modo bonario, naturalmente.
È l’Italia che non sa fare un cazzo, per rimanere in stile, e che si è trovata a governare il Paese.
Quella che quando si presenta l’occasione lascia manifestare senza remore la sua pancia più cattiva, è razzista e bugiarda, pressappochista, rancorosa, lecchina ed infingarda.
Il Maestro Banfi mi ha sempre fatto ridere e messo di buon umore (per dieci minuti, poi mi viene l’orticaria). Vuoi mettere un motto di spirito, un gioco di parole tipo quello su Sierra Leone, che non è il nome della nave che riporta i migranti disperati nei lager libici ma quello di un paese africano, fatto da Banfi invece che da quel nerd di Toninelli? Tutto un altro passo. Scelgo il Commissario Lo Gatto tutta la vita #banfi #linobanfi #unesco