A Bologna in queste ore è in corso una protesta. Nulla di nuovo, verrebbe a pensare, nella città di Radio Alice, del Movimento 77, del Dams e dei Punkabbestia. Invece, la novità c’è: i fattorini della pizza a domicilio, i riders, i pizza express, chiamateli come più vi piace, si sono fermati. Un singolare sciopero, che ha privato migliaia di pantofolai della gioia di una quattro stagioni in mutande sul divano, mentre fuori imperversa la bufera. Perché è proprio di questo che si tratta: i riders hanno tolto i caschi e spento i motori proprio perché è troppo pericoloso correre in motorino per le strade sotto la nevicata che ha colto in questi giorni la città con i fianchi sui colli. Una protesta che si è diffusa, guarda un po’, sui social, amplificata dalla pagina Facebook Riders Union Bologna (solo per il nome merita il like). Uno sciopero in piena regola, con tanto di rivendicazioni per il miglioramento di condizioni di lavoro che definire precarie è un eufemismo. Solo per capire meglio il tema in oggetto, racconto la mia esperienza nel settore. Sono stato, molti anni fa, il primo pizza express di Pisa. Un vero primato. L’ho fatto per quasi tre anni, lavorando ogni giorno in orario serale per una piccola pizzeria in Via dell’Annunziatina, una strada molto popolare nel centro storico della città. Guadagnavo 1000 lire a pizza. In pratica, ogni pizza costava al cliente 1000 lire in più e le incassavo io. Quindi il primo anno, se le serate non decollavano, potevi guadagnare 5/6 mila lire a sera e camminare. Poi ho fatto la battaglia per il minimo garantito a 10mila lire. In seguito, il giro di affari si è ampliato ed il servizio è decollato, negli ultimi tempi riuscivo a guadagnare anche 30/40 mila lire a serata per cinque giorni la settimana. Era un lavoro stressantissimo: sempre al massimo della velocità, senza rispetto di sensi unici e codice della strada, altrimenti le pizze arrivano fredde e in ritardo. Con ogni tempo, le serate che lavori di più sono quando piove e fa un freddo cane, la gente non esce e chiama per la pizza. Pur coprendomi bene, andavo in giro a fare le consegne vestito a strati e sembravo l’Omino Michelin, ero sempre raffreddato e malato, tutto l’inverno. Ho fatto tre incidenti, di cui uno bruttissimo, ho preso in pieno un autobus e non so come ho potuto cavarmela con solo alcune escoriazioni. Ho avuto culo (pardon, fortuna), potevo davvero rimanerci. Naturalmente zero assicurazione e precarietà assoluta, anche quando il servizio si è allargato e sono entrati a lavorare altri ragazzi, tutti studenti universitari come me. Erano i primi anni 90 e da allora sostanzialmente non è cambiato molto. Anzi, è peggiorato. Io lavoravo per una piccola realtà, i proprietari erano simpatici e umani, e ci mettevano loro il motorino. Oggi i ragazzi che fanno i riders usano il loro mezzo e lavorano per grandi catene di pizzerie che applicano il peggio della vessazione contrattuale. E credo proprio che rischino ancora di più sulla strada. La protesta dei riders bolognesi è sacrosanta e va sostenuta. Anche perché dimostra che non è vero che i ragazzi di oggi siano rinunciatari e assuefatti. C’è anche chi si ribella e fa valere i propri diritti. E dimostra che lo sfruttamento è davvero globalizzato, e incide eccome anche nei paesi più “avanzati” come il nostro. Di certo, una pizza non vale il rischio.